Archivi categoria: Sistema scolastico

Scuola: non facile, buona; non informazioni, metodo; non compressione, allargamento


Spero non siano tutti così, anzi, ho le prove materiali che ci siano opinioni diverse, ma in questi ultimi tre anni ho partecipato a diversi incontri formativi con psicoterapeuti, psicologi, pedagogisti e altre figure identificate come esperti del settore dell’insegnamento e, fra molte cose buone, ho sentito anche indicazioni che, sinceramente, definire illogiche è poco. Una per tutte: “gli attuali adolescenti hanno un lessico molto povero, pertanto voi docenti dovete accordarvi per formulare le richieste (lavori, compiti, eccetera) utilizzando tutti le stesse forme lessicali”. Come dire “dai muri della casa sono crollati dei pezzi, invece di ripararli, buttiamone giù altri”.

Creare cultura non può essere banalizzato, acquisire cultura non può essere reso facile e indolore. Il cervello va gestito così come si gestiscono i muscoli: allenandolo. Ogni allenamento per essere produttivo deve portare fuori dalla zona di benessere, ma non l’allenatore bensì l’allenato. Un allenamento è stato efficace solo quando, dopo averlo effettuato, l’allenato ha i muscoli doloranti, il corpo affaticato e gronda di sudore.

La scuola non può e non deve essere facile, può e deve essere buona formatrice. La scuola non può e non deve dare informazioni pronte all’uso, la scuola può e deve dare metodo di studio. Il docente non può e non deve essere colui che spiega, il docente può e deve essere colui che guida i discenti nel complesso e crescente percorso di autoapprendimento. Il docente non può e non deve adeguare il suo lessico e la sua proposta didattica alle conoscenze dei discneti, il docente può mantenere alto il livello della sua didattica per stimolare all’accresimento e indurre l’allargamento delle conoscenze e delle visioni.

Coronavirus, spero s'impari qualcosa


Veramente, spero proprio che non succeda quello che è (quasi) sempre successo, quantomeno negli ultimi cento anni, dopo ogni evento più o meno catastrofico: torna il silenzio mediatico e nei sistemi tutto resta pressochè immutato.

Se fossimo già stati cablati, abituati e attivati nel lavoro da remoto (e lasciamo stare la distinzione, puramente legalese, tra telelavoro e smart warking, termini che invero dovrebbero voler dire la stessa cosa), cosa praticabile per almeno il cinquanta (e mi tengo sui un valore prudenziale, invero sarei portato a dire il settanta se non l’ottanta) per cento dei lavoratori, l’impatto economico e sociale del virus che sta in questo momento sconvolgendo il mondo sarebbe stato assai minore.

Sono vent’anni, a mia memoria, che si parla di telelavoro (e permettetemi d’integrare in questa parola tutti i vari ambiti applicabili: lavoro, scuola, medicina, vendita, sociale, elettorale, eccetera) e ad oggi sono veramente poche le aziende e le strutture, scuole in primis dove la cosa sarebbe stata assai semplice e produttiva, che sono in tal senso operative. La motivazione è tanto subdola quanto incomprensibile e composta da più ingredienti:

  • mancanza di fiducia da parte dei dirigenti, fiducia sulla volontà del personale, fiducia nella loro dedizione al lavoro, eccetera (“e come faccio ad essere sicuro che lavorino il tempo previsto?”);
  • incapacità comunicativa e scarso allenamento alla comunicazione con strumenti diversi dal faccia a faccia (“non posso spiegarti per e-mail”, “dobbiamo assolutamente vederci”, “questa cosa devo dirtela a voce” sono solo alcuni esempi di frasi che mi sono state dette, salvo poi determinare che invero era possibilissimo spiegarsi anche in remoto… la videoconferenza, comunque, sostituisce benissimo il faccia a faccia);
  • innata tendenza all’immobilismo, e qui ci metto in mezzo anche il personale che, messo a fronte della necessità d’imparare cose nuove, spesso si oppone o, quantomeno, contesta (più volte, chiamato a tenere corsi di aggiornamento aziendali, i sono sentito dire “sono anni che lavoro così, perché mai dovrei cambiare” oppure “mi mancano due anni alla pensione chi me lo fa fare di rimettermi in gioco e cambiare il mio modo di lavorare” e altre similari);
  • scarsa visione sul lungo termine che porta a valutare negativamente l’investimento necessario (invero non poi così elevato e comunque suddivisibile in passi graduali; senza tener conto dei fatti che hanno dimostrato come sin da subito ci fosse un risparmio anche considerevole sia per l’azienda o struttura che per il personale, anche a fronte di un’aumentata produttività);
  • soprattutto nella scuola, alta diffidenza verso lo strumento (“li vedi i nostri studenti, già fanno poco o nulla con noi presenti, figurati così”; “come faccio a controllare che facciano le cose”; “e la socializzazione dove va a finire”).

Certo il passaggio al telelavoro richiede un minimo di sforzo da parte di tutti coloro che ne sono coinvolti, d’altra parte, oltre alla resistenza agli attacchi epidemiologici, apporterebbe tanti di quei vantaggi che non possono essere ignorati:

  • riduzione del traffico;
  • abbassamento dell’inquinamento;
  • contenimento dello stress;
  • risparmio economico conseguente all’azzeramento dei tempi di arrivo sul luogo di lavoro;
  • flessibilità;
  • risoluzione dei problemi relativi alla gestione dei figli;
  • velocizzazione dei contatti, degli incontri, alla fine delle decisioni, ovvero aziende e strutture possono agire e reagire in tempi brevissimi.

Ecco, mi auguro proprio che la lezione del Coronavirus non venga poi dimenticata in pochi giorni, ma determini un cambiamento radicale nel nostro modo di rapportarci al lavoro (e non solo al lavoro), convinca aziende, struttuire, persone, ecectara ad attivare un cambiamento radicale verso la tecnologia: non (solo) un sistema per incrementare gli affari e velocizzare il lavoro, ma soprattutto un sistema per migliorare la qualità della vita!

Chiudo con un incompleto elenco di quanto non mi è piaciuto e non mi piace nelle cose che sono successe e stanno succedendo.

  • Molti che criticano e pochi che obbediscono.
  • Persone che si inventano esperti epidemiologici.
  • Media che, invece di sfruttare l’occasione per dimostrare d’essere capaci a fare informazione puntuale e pulita (cosa che ormai in molti dubitavano e, a quanto pare, a ragione), cercano lo scoop, s’inventano numeri e casi, commettono errori (qualcuno è arrivato a scrivere nello stesso articolo numeri diversi in merito allo stesso parametro o a fare affermazioni contrastanti), creano confusione e poi denunciano che sarebbe il governo a crearla.
  • La presenza di chi ne approfitta.
  • Governatori e sindaci che si risentono per non essere stati consultati: suvvia, la democrazia è si una bella cosa ma ha anche dei difetti e tra questi la lentezza decisionale; in una situazione di crisi come questa è indispensabile poter prendere le decisioni nel minor tempo possibile e bene ha fatto Conte a decidere di suo proprio.
  • Critiche alla chiarezza dei decreti specie l’ultimo (alla data di pubblicazione di questo articolo): qui salta fuori quello che proprio non molto tempo fa veniva evidenziato da diversi articoli sui media, la scarsa comprensione del testo da parte degli studenti italiani, scarsa comprensione che io personalmente ho potuto appurare essere presente anche in una buona fetta di adulti. Uno dei punti più criticati è stato quello sulla limitazione alla mobilità: per diamine ma è ben scritto “salvo comprovate necessità di lavoro o salute” ovvero…. la mobilità non è proibita ma limitata al minimo indispensabile, quel minimo che non è altrimenti effettuabile (lavori che non si possono realmente fare in remoto) o che non è procrastinabile (visite mediche salvavita, per fare un solo esempio); “ma che vuol dire comprovate”, ma dai, ormai da tempo immemore in Italia funziona così, la parte legislativa è appositamente vaga di modo che sia lasciata l’adeguata flessibilità alla parte applicativa e giuridica per potersi adattare alle varie situazioni, spetta qui ai Prefetti definire cosa nel loro territorio sia da accettare come prova valida alla necessità di spostamento.
  • Opportunismo, e mi riferisco a quelle strutture (ne sono assolutamente certo in quanto coinvolto in prima persona) che nonostante il loro personale possa tranquillamente operare da remoto (vedi le scuole) si sono immediatamente attivate per coprire il tempo di chiusura con ammortizzatori sociali (ricordiamoci che non sono soldi che piovono dal cielo, ma escono dalle tasche di tutti i cittadini) o, peggio, usando congedi e ferie.

Ecco, mi sono sfogato e posso iniziare questa nuova giornata, spero veramente che la lezione dia i frutti che deve dare.

Sbagliato dire l’Italia ce la può fare, perché invero…

ce la deve fare

assolutamente!

Diritto-dovere allo studio


Ad un certo punto della storia della scuola italiana si è iniziato a parlare di diritto-dovere allo studio, un concetto certamente corretto che, purtroppo, è stato in parte disatteso mediante i tagli alle finanze della scuola e la conseguente decapillarizzazione scolastica sul territorio (incremento delle difficoltà d’accesso) che ha determinato l’aumento esponenziale del numero degli allievi in classe (riduzione delle potenzialità formative), nella restante parte manipolato in funzione del mero opportunismo delle direzioni scolastiche: “ha il diritto di studiare quindi non può essere bocciato”, già ma dov’è finito il dovere di studiare? il mondo reale non è altrettanto benevolo e la scuola deve anche preparare all’ingresso nel mondo reale; “se non vieni a scuola ti mando i carabinieri”, ehm, la legislazione italiana non prevede l’obbligo alla scolarizzazione bensì quello dell’istruzione che può ben essere ottenuta anche in lecita autonomia, tant’è vero che ci sono molte famiglie che hanno optato per questa strada e il sistema scolastico anziché colpevolizzarle dovrebbe attivarsi con una bella azione di autocritica.

Diritto allo studio ovvero ognuno deve avere la possibilità materiale di studiare (quello che vuole studiare).

Diritto allo studio ovvero rispettare i tempi di apprendimento di ogni discente.

Diritto allo studio ovvero passare dalla scolarizzazione per età a quella per competenze.

Diritto allo studio ovvero essere innanzitutto formati all’imparare.

Dovere allo studio ovvero ognuno deve impegnarsi ad una fattiva e costante crescita nella propria formazione, alias no scaldabanchi.

Dovere allo studio ovvero se non ne hai voglia vai a lavorare e studierai appena ne sentirai l’esigenza.

Dovere allo studio ovvero essere responsabili della propria crescita e dei propri atteggiamenti.

Scuola e responsabilizzazione


SScuola (superiore): vigilanza continua, rigidità dei programmi, schematismo orario, demonizzazione dell’errore, ritiro a priori dei cellulari, limitazione della libera scelta, valutazioni scalari, pensiero lineare, educazione alla sfiducia e alla paura, incoerenze comunicative, politica del divieto, eccetera.

CCome possiamo far maturare i ragazzi quando l’ambiente che li deve educare è immaturo?

Come possiamo insegnare ai ragazzi ad affrontare i problemi se gli adulti sono i primi a non farlo?

Come possiamo pretendere dai ragazzi che facciano le scelte giuste invece di quelle più comode quando l’esempio che li viene dato è proprio quello delle scelte facili?

Come possiamo responsabilizzarli quando tutto il sistema è fondato sulla loro deresponsabilizzazione o, al massimo, su una finta (limitata) responsabilizzazione?

P.S.
Purtroppo la struttura sociale rende molto difficile cambiare la situazione, occorrono scelte politiche, flessibilità oraria e dei programmi come prima cosa (superiori in stile pseudo universitario), e giuridiche, criteri di responsabilità avanti a tutto (basta con la ricerca faziosa di un colpevole che paghi), importanti che nessuno vuole fare. Detto questo ci sono scuole (poche) che qualche cambiamento sono comunque riuscite ad introdurre (ad esempio quella professionale che è stata incentrata sui laboratori e tutto è focalizzato sulle attività di laboratorio): volere è potere!

Arriva WeSchool, la piattaforma per creare lezioni collaborative


La tecnologia è inarrestabile ed ogni resistenza è destinata all’inesorabile fallimento, piuttosto che opporvisi dobbiamo imparare a farcene attenti e intelligenti fruitori: tecnologia non per produrre di più e/o in meno tempo bensì tecnologia per migliorare la qualità della vita (oltre e più che del lavoro). Tra l’esercito dei lavoratori vi sono anche gli insegnanti ed è giusto che anche per costoro vengano sviluppati e proposti sempre più specifici e avanzati  sistemi d’insegnamento tecnologico, anche perchè ormai la scuola ha a che fare con ragazzi che nascono con la tecnologia nel sangue, anche se poi materialmente della stessa conoscono più che altro l’utilizzo, ed ecco un altro valido motivo per aiutarli a conoscerne anche struttura e funzione.

Ecco, a cura di Carlotta Balena per StartupItalia, la presentazione di un nuovo strumento che aiuta gli insegnanti a fare il loro lavoro e farlo al meglio: “Arriva WeSchool, la piattaforma per creare lezioni collaborative“.

Educazione sessuale


Condizionati, ossessionati, spaventati educhiamo i figli a nostra immagine e somiglianza, dando luogo ad un circolo vizioso che mantiene la società chiusa in una malattia della quale alcuni dei sintomi più evidenti sono le bambole (e i bambolotti) privi di attributi sessuali, i camerini singoli negli spogliatoi, spogliatoi e bagni separati tra uomini e donne, il concetto stesso di decenza, la nudofobia, la repulsione per l’educazione sessuale.

Ecco, l’educazione sessuale, da tempo se ne parla, alcune scuole ci hanno provato e per la maggior parte le iniziative avviate sono state prontamente bloccate dall’intervento dei genitori, evidentemente più preoccupati di conservare la loro presunta stabilità mentale (vedi “Bambini! Cosa o chi vogliamo veramente proteggere?”) piuttosto che di dare la possibilità ai figli di crescere in modo sano e naturale. Quelle poche iniziative che sono riuscite a sopravvivere all’opposizione si mascherano dietro termini quali l’affettività, si strutturano sulle storielle di api e fiori, si manifestano attraverso immagini e cartoni animati dove gli attributi sessuali sono celati o addirittura mutilati.

Invece di starsene bloccati sul chiedersi a che età si sia pronti, sul come farlo, su quale metodologia utilizzare, eccetera, passiamo all’azione e facciamolo presto: i bambini non ancora condizionati dalle tare nudo e sesso fobiche degli adulti di certo reagiranno solo che bene, quello che comprendono di sicuro li fa crescere, quello che non comprendono di sicuro non li turba; quelli più grandi ormai già condizionati dalla società malata di nudo e sesso fobia riusciranno così a liberarsene e crescere più sani e migliori.

C’è bisogno di crescita, di maturazione, di sviluppare una società sana, d’interrompere il circolo vizioso basato sull’ossessione e la fobia, di fare educazione sessuale e farla come va fatta: usando il nostro vero corpo, così come mostrano gli stupendi filmati di Pubert, realizzati dalla NRK, emittente televisiva nazionale norvegese, nell’ambito del programma Newton.

Ringrazio l’amico Alessandro Ruggero per avermi segnalato l’esistenza di tali filmati.

Cambiare i paradigmi dell’educazione


Bello scoprire che quanto vado affermando ormai da diversi anni è parallelamente sostenuto e divulgato da altre persone…

Sir Ken Robinson, “Changing Paradigms” un magnifico e interessantissimo video, in questa versione tradotta in italiano e reperita sul canale YouTube di Luca Gervasutti.

Interessare gli alunni


sogni“Ho fatto vedere loro un filmato molto interessante, ma loro si sono annoiati”.

 “Ho passato il pomeriggio a valutare decine di articoli per sceglierne uno da proporre ai miei alunni e poi la risposta è stata zero”.

 “Gli alunni di oggi sono demotivati e disinteressati”.

 “Con gli adulti è più facile”.

 Sono alcuni esempi di frasi molto comuni tra chi insegna, frasi che esemplificano situazioni assai frequenti e reiterate, frasi che, però, mettono in evidenza anche un atteggiamento didattico obsoleto (la pretesa di decidere per conto degli alunni) e che, purtroppo, il sistema, attraverso la schedulazione dei programmi e dei tempi di studio nonché l’estensione dell’obbligo scolastico, ha reso cronico e insuperabile anche da parte di chi avrebbe la visione più aperta verso la metodologia didattica vincente.

 Non è la scuola o il docente a dover decidere cosa è interessante e proficuo per gli alunni, ma devono essere gli alunni a farlo, la scuola e il docente devono sfruttare le scelte dei discenti per guidarli, e sottolineo “guidarli”, verso l’acquisizione degli obiettivi didattici e sociali definiti.

 L’insegnante non può essere un travasatore di contenuti e nemmeno un costruttore di contenuti, l’insegnante è e dev’essere il coordinatore del processo di auto apprendimento. La scuola non può essere la prigione delle intelligenze, la scuola è e dev’essere l’ambiente in cui tali intelligenze trovano la libertà più ampia per esprimersi, agire e crescere!

 Per dirla con le parole di Paolo Perticari: “l’insegnante impara, il discente insegna.”

SAPERE (9) _ GIOVANNI ZAMBIASI


E’ l’obbligo scolastico la giusta strada per la vera formazione? Basta obbligare per formare? Cinquant’anni fa i fatti sembravano a favore di un si, oggi, però, la cose sembrano assai diverse, perchè? E’ il sistema che non regge più? E’ l’obbligo ad essere sbagliato? Qual è la vera formazione? Come si ottiene formazione? Queste ed altre le domande che sarebbe opportuno fare e farsi, perchè le cose non possono continuare così come stanno andando.

Circolo Scrittori Instabili

Osservava il bambino da giorni e, piano piano, cominciava a capire. Erano molti anni che si occupava di problemi connessi all’età evolutiva, ma mai aveva visto qualcosa di simile.
Il ragazzino era concentratissimo, stava disegnando quello che vedeva. Il panorama sul lago sotto di loro rifletteva di luce blu le montagne sull’altra sponda, creando un effetto spettacolare, in contrasto con il verde dei prati che scendevano fino alla riva.
Nei giorni precedenti aveva osservato Andrea senza capire il perché della sua ostinazione a non voler apprendere come tutti i suoi coetanei, il suo rifiuto della scuola e dell’insegnante.
Eppure la maestra, giovane e simpatica, era anche gentile e preparata, come in pochi altri casi aveva trovato. Ma Andrea non ne voleva sapere di stare in quella classe dove si parlava di storia e matematica, italiano e geografia.
A lui piaceva osservare il mondo e imparare dalla realtà che lo circondava…

View original post 514 altre parole

Incongruenze scolastiche


Uno dei problemi della scuola italiana è insito nella gestione degli aggiornamenti.

C’è qualcosa che non quadra se tu, informatico professionista con un Master inerente l’insegnamento con le tecnologie, formatore scolastico e aziendale con anni di insegnamento in ambito informatico e di utilizzo delle tecnologie nell’insegnamento, devi assistere a una lezione sulle (su una specifica tecnologia, in verità) tecnologie informatiche applicate all’insegnamento tenuta da… un maestro elementare appassionato di tecnologia.

Incongruenze scolastiche?

Chi si accontenta gode, ma la scuola?


 Chi vive a contatto con la scuola da almeno un paio di decenni si è ben reso conto di quanto la stessa abbia man mano abbassato inesorabilmente i propri obiettivi. Diversi e complessi i motivi, che, per giunta, si sono venuti a sovrapporre fra loro intersecandosi in vari modi e in varie misure. Mi limito a citare il giusto, ma erroneamente inteso, concetto del diritto e dovere allo studio, oppure la paura di farsi la fama di scuola difficile, o ancora il concetto “se non ci arrivano vuol dire che gli obiettivi sono troppo alti e allora dobbiamo abbassarli”.

Se è in parte ben vero che, talvolta, chi troppo vuole nulla stringe, se è in parte ben vero che, talvolta, chi si accontenta gode, non è altrettanto vero che questo valga sempre e, soprattutto, che questo porti a risultati ottimali.

Può la scuola accontentarsi di vedere gli allievi che entrano con uno e escono con due quando gli stessi per affrontare dignitosamente la vita e il lavoro avrebbero bisogno di 100?

Certo è bello rilevare anche solo una piccola crescita, è gratificante osservare anche solo una piccola maturazione, ma è sufficiente? La formazione s’è trovata una ricca serie di stupende regole, ma poi? Poi se ne è dimenticata o, per meglio dire, si limita a enunciarle, a usarle per farsi bella, per indorare articoli e newsletter, ma di fatto restano solo belle parole.

Come si può attuare la tanto reclamizzata personalizzazione formativa attuata sul singolo individuo quando in classe ci sono 20 o più alunni?

Come si possono responsabilizzare i ragazzi quando tutto ricade solo ed esclusivamente sotto il ferreo controllo, la continua vigilanza e la totale responsabilità della scuola e in primis del docente?

Come si possono rispettare i tempi di apprendimento del discente quando il percorso formativo è rigidamente vincolato a tempi predeterminati, quando tutta la struttura scolastica è rigida e poco elastica?

Come si possono fare tutte le cose sopra dette quando le lezioni devono rigidamente conformarsi a un programma predefinito e non solo in ragione di obiettivi, ma anche in misura di date e ore?

Bella e giusta l’idea del non avere italiani di serie A e di serie B, ma sulla riga di tale concetto e per come sta lavorando la scuola italiana siamo arrivati a formare solo italiani di serie Z.

La nuova frontiera dell’insegnamento


1712Non è esattamente nuovo visto che se ne parla già da ormai diversi anni, ma è comunque argomento che appare essere ancora caldo e interessante: la nuova frontiera dell’insegnamento!

Un tempo insegnare voleva dire che qualcuno (il docente) passava le proprie conoscenze e abilità (competenze) a qualcun altro (il discente), oggi il significato d’insegnare è stato rivisto e trasformato sia in seguito a studi più attenti dei processi di apprendimento, sia al fine di renderlo più adeguato alle esigenze di una società più ampia, una società nella quale la tecnologia è predominante e le competenze si sono notevolmente espanse, una società dove la formazione professionale deve necessariamente tendere alla specializzazione il supporto all’autoapprendimento. Ecco che il docente moderno non è più colui che trasferisce le proprie conoscenze ad altri ed è diventato colui che si occupa di definire, formulare e produrre il miglior percorso di autoapprendimento.

Autoapprendimento è la parola chiave, la sfida alla quale la scuola oggi deve organizzarsi: il docente, oggi, non può basare il proprio operato sulla lezione frontale, sull’illustrazione minuziosa dei concetti, sulla formulazione metodica e precisa delle esercitazioni, al contrario, deve soprattutto, per non dire esclusivamente, guidarlo alla scoperta dei concetti e delle azioni mediante un insegnamento che sia criptico e improntato alla sperimentazione personale delle cose. Il primo aspetto, quello della cripticità, serve per lasciare diversi punti oscuri, al fine di creare nel discente dubbi e stimolare le sue domande, il secondo, quello della sperimentazione, per esaltare l’aspetto deduttivo. Importante, poi, che il tutto sia costruito attorno alla riconsiderazione della valenza educativa e formativa dell’errore: il discente dev’essere lasciato libero di sbagliare, anche a più riprese, anzi, quando possibile l’errore va anche indotto ad arte, solo così facendo si stimola il discente ad essere produttivo e collaborativo, a non temere il giudizio, a mettersi in gioco e a mettere in campo tutta la sua capacità logica e deduttiva, arrivando ad evidenziare (e imparare) quanto e come gli errori possano essere, se ammessi e accettati, ben più utili delle cose giuste e scontate.

Purtroppo al lato della pratica appare che molti discenti, in particolare, i giovani, pur avendo iniziato il loro percorso educativo didattico dopo la nascita delle nuove formulazioni didattiche, ancora si aspettano che il docente fornisca loro, in via induttiva, istruzioni pronte all’uso, complete ed esaurienti. Giovani, questi, che non sono in grado di seguire il moderno metodo d’insegnamento e definiscono incapace o svogliato quel docente che, invece, lo persegua con dedizione.

La motivazione?

Come sempre la risposta è complessa, rendendo improbo il compito di chi deve formularla in poche righe. Con in mente tale considerazione vediamone quantomeno gli aspetti principali.

Partiamo dalla scuola, una scuola, quella italiana (non perché le altre siano magari diverse, ma perché conosco direttamente solo questa e quando dico o scrivo lo faccio solo per le cose che conosco in prima persona e non per sentito dire), che appare ancora troppo legata al voto come premio e come punizione (mentre dovrebbe essere visto e usato solo come indicazione degli obiettivi perseguiti), all’errore come “peccato” (mentre, come già detto, dovrebbe essere visto e usato come preziosa risorsa educativa e formativa).  Una scuola dove il discente acquisisce la paura del giudizio e quella di sbagliare, quando, al contrario, dovrebbe imparare a fare senza preoccupazione, a sperimentare, sbagliare, analizzare, comprendere, accettare e dedurre.

Finiamo con l’insieme sociale famiglia/scuola, un sistema che oggi educa i giovani con troppo accanimento terapeutico, ossia badando più al controllarli che al responsabilizzarli, lavorando più sull’immediatezza del risultato che sulla sua durevolezza nel tempo, cercando le soluzioni più comode per evitarsi patemi e problemi, anziché lavorare con quelle che meglio formano il futuro adulto, inteso sia nel senso di cittadino che di lavoratore che di persona. Comodo affermare che certi sistemi non funzionano con i giovani d’oggi o quantomeno con certi giovani senza prima provare a chiedersi se non sia piuttosto la struttura educativo formativa a non essere capace e/o adeguata all’applicazione di detti sistemi: da tempo immemore, tanto per fare un solo esempio, la pedagogia ha ben compreso che ogni discente ha la sua personalissima velocità di apprendimento, l’istituzione scolastica, però, è ancora oggi legata a tempi fissi rigidamente uguali per tutti, fatta salva la possibilità di bocciatura che alla fine, però, si limita a riportare il discente inutilmente e pericolosamente indietro nel suo tempo didattico invece di adattare e personalizzare il processo didattico alla velocità di ogni singolo discente.

La nuova frontiera dell’insegnamento e la nuova sfida per la struttura scolastica non sono quindi tanto nell’applicazione di una moderna metodologia didattica, piuttosto nella loro capacità di riconoscersi come totalmente fondate su principi erronei e di rimettersi, conseguentemente, in gioco per ristrutturarsi completamente ed efficientemente, senza dare sempre e solo colpa ai tartassati docenti costretti a dare risultati con mezzi spesso inadeguati al loro ottenimento.

Nuove tecnologie a scuola


Lentamente anche nelle scuole del nostro Paese la tecnologia si sta diffondendo e dopo la lavagna digitale anche i tablet fanno il loro ingresso trionfale.

E’ notizia di pochi giorni fa che a Milano, una delle migliori scuole linguistiche della città, il Civico Istituto Tecnico Manzoni di via Deledda, che è gestito dal Comune, ha realizzato un progetto di insegnamento attraverso metodologie di apprendimento sperimentali che prevede l’utilizzo dell’iPad. Tale sperimentazione coinvolgerà un centinaio di studenti tra i 14 ed i 16 anni. Ed è previsto che gli alunni affrontino gli esami conclusivi del percorso scolastico avvalendosi dell’ausilio del tablet della Apple.

Le classi coinvolte dovranno produrre degli e-book relativi agli argomenti affrontati nelle varie discipline, filmati e podcast. Tutto il materiale prodotto verrà in un secondo momento messo in Rete perché possa essere utilizzato da tutti gli allievi delle scuole civiche e statali.

In questo progetto l’iPad viene utilizzato sia dagli alunni sia dai docenti.

Il progetto, inoltre, è monitorato dalle Università Bicocca, Bocconi e Cattolica.

Questo esperimento tenta di avvicinare i nativi digitali che richiedono un metodo formativo che utilizzi le nuove tecnologie.

Generazione 2.0


IMG_1400Si fa un gran parlare del web 2.0, tutti si vantano di averlo implementato, chi ancora non l’ha fatto esprime l’intenzione di farlo al più presto. Quanti però sanno cosa è il web 2.0? Quanti, soprattutto, sanno che è già obsoleto? Quanti sanno che invero da più di dieci anni è stato formulato il progetto web 3.0?

Sono stato a un incontro che doveva presentare e organizzare un corso formativo sulle nuove forme di fare insegnamento attraverso le nuove tecnologie: cellulari, informatica e multimedia. Ci si accomoda nel laboratorio informatico, siamo tutti presenti ma … Il materiale necessario alla presentazione non è caricato correttamente sul computer e ci vuole mezz’ora abbondante prima che si possa cominciare. Ecco siamo pronti! Ehm no, non ancora: ognuno deve collegarsi al cloud, servono gli indirizzi e-mail dei presenti per consentire l’accesso visto che nessuno ha pensato di farlo in via preliminare. Raccolta degli indirizzi e… cavolo se non è un indirizzo di uno specifico fornitore non sanno come gestirlo. Alla fine finalmente si riesce a partire. A questo punto osservando gli altri presenti mi accorgo che, nonostante debbano inserire i parametri di accesso alla propria casella e-mail su di un computer pubblico, molti non tolgono la spunta alla check box che abilita il sistema a mantenere memorizzati i parametri di accesso per una successiva riconnessione veloce.

Potrei continuare con altre decine di esempi, sarei comunque ripetitivo e prolisso pertanto passo subito alla morale di fondo.

Nel mondo delle generazioni digitali, invero la vera conoscenza informatica avanza ad una velocità di poco superiore allo zero e proprio coloro che si propongono come formatori dei sistemi tecnologici moderni, non solo non li sanno utilizzare al meglio ma addirittura non badano agli importantissimi aspetti della sicurezza informatica.

Altro che web 3.0 o anche solo 2.0, qui sarà meglio parlare di preistoria dell’informatica!!!

L'origine della terra - china

 

Medicina sociologica (e pedagogia)


IMG_1821Così come per la medicina, anche in sociologia e pedagogia si sono succedute nel tempo varie metodologie nell’esaminare e trattare i problemi dell’apprendimento. Così come per la medicina esiste l’approccio orientale, che considera l’insieme delle cose, e quello occidentale, che considera il singolo sintomo, anche in pedagogia si sono formati approcci diversi…

Atto uno – Cura dei sintomi.

Un tempo si tendeva a curare i sintomi più che a occuparsi della malattia, ad esempio il ragazzo scrive male per cui lo si obbliga a scrivere centinaia di istanze per ogni lettera dell’alfabeto.

Atto due – Definizione di nuove malattie

Siccome la strategia di cui sopra dava esiti positivi per alcuni e negativi per altri, non potendo la società accettare l’errore metodologico, questa si creò, spesso artificiosamente, delle malattie che potessero giustificare i mancati successi, ad esempio il ragazzo continua a scrivere male anche dopo la cura della ripetizione prolungata della scrittura dei singoli simboli letterari, allora è disgrafico.

Atto tre – Si cura la frattura con l’antidolorifico

Questa nuova strategia più che una cura era però un isolamento e finì col creare emarginazione. Sentendosi colpevole la società per sollevarsi dal proprio senso di colpa iniziò la campagna contro l’emarginazione e iniziò a curare le presunte malattie mediante degli antidolorifici, ad esempio il ragazzo disgrafico va integrato nella società ma trattato differentemente, con percorsi formativi e di crescita individualizzati.

Atto quattro – Si cura la frattura dando l’antidolorifico al medico

Questo però non apporta sostanziali miglioramenti nella situazione iniziale: la cura della malattia. Ancora però non si può vedere oltre i sintomi e ci si inventa di dare gli antidolorifici al medico stesso. Ad esempio il ragazzo non scrive bene, potrebbe essere disgrafico, aggiorniamo gli insegnanti sul tema della disgrafia.

Atto cinque – ?

Quale sarà il prossimo passo strategico?

Quando si arriverà a percepire la malattia?

Quando ci si occuperà dell’insieme invece che del dettaglio?

IMG_1822Gli esperti di PNL (Programmazione Neuro Linguistica) hanno già dimostrato che talvolta, se non spesso, un disgrafico, per continuare con l’esempio utilizzato sopra, non lo è per patologie proprie, ma per errori nell’apprendimento che gli viene sottoposto, un apprendimento che non verifica e non prende in considerazione i sistemi rappresentazionali propri di ogni singolo individuo. Tali sistemi ci condizionano in modo preponderante tutta l’esperienza di vita e la comunicazione, ivi compreso l’apprendimento: se sono uditivo imparerò a scrivere solo se mentre scrivo pronuncio ad alta voce la lettera che sto scrivendo (mentre in classe si chiede il silenzio); se sono visivo mi basterà scriverla; se sono cinestesico avrò bisogno di poter toccare con mano la forma della lettera.

Per fare un altro esempio ancora più eclatante: la dislessia. Leggendo di solito teniamo il libro sul tavolo per cui le parole le vediamo portando gli occhi in basso, questo attiva in noi l’accesso cinestesico. Se siamo auditivi o visivi così facendo non percepiamo quello che stiamo leggendo per cui non riusciamo a memorizzarlo, addirittura potremmo non pronunciarlo correttamente. Cambiando posizione del testo in ragione del nostro sistema rappresentazionale predominante, ecco che magicamente le difficoltà di pronuncia e memorizzazione vengono superate: libro in alto per un visivo che deve poter vedere (trasformare in immagini) quello che legge, libro a livello degli occhi per un auditivo che deve poter sentire (trasformare in suoni) quello che legge, libro in basso per un cinestesico che deve poter percepire (trasformare in sensazioni) quello che legge.

Crederci o non crederci è irrilevante: chi opera nella formazione non deve fermarsi sulle proprie singole convinzioni, non deve chiudere la propria sfera esperienziale a quello che crede, ma deve sempre essere aperto a tutte le logiche e a tutte le possibilità, deve sempre provare tutte le strade immaginabili e possibili; Il suo obiettivo non può e non deve essere l’affermazione di se e delle proprie credenze, bensì deve essere l’affermazione del discente, il suo apprendimento e la sua crescita!

Riforme della scuola: perchè falliscono?


1227È cosa ormai ben risaputa e documentata: nonostante i vari interventi di presunta riforma scolastica, la scuola negli ultimi anni ha costantemente perso in efficienza. Perché le riforme sono fallite?

Sarò breve e conciso.

  1. Innanzitutto perché si vuole riformare la scuola partendo dall’alto, cioè dalle università, per poi procedere in modo globale (contemporaneamente su più livelli scolastici), scoordinato (senza seguire una sequenza logica) e troppo rapido. Ogni ristrutturazione per essere fattibile deve partire dalla base e procedere progressivamente verso il vertice, indi la scuola va riformata partendo dagli asili, facendo in modo che chi è partito con la vecchia struttura continui e finisca con quella, mentre chi parte con la nuova avanzi e finisca con questa. Un esempio pratico: ipotizziamo 15 anni scolastici, ci vorranno 15 anni per riformare tutto il sistema, ne uno di più ne uno di meno.
  2. In secondo luogo perché si agisce quasi esclusivamente sugli aspetti formali, dimenticandosi che se questi agiscono sull’efficacia, per l’efficienza è necessario preoccuparsi di ben altre cose e cioè di tutto ciò che forma l’essenza della scuola: gratificazione del personale, ampia disponibilità di mezzi didattici, aggiornamenti professionali retribuiti, assistenza psicologica per alunni e docenti, meritocrazia formativa, adeguati metodi e mezzi di valutazioni, informatizzazione di tutti i processi gestionali e didattici, eccetera.
  3. In terzo luogo perché invece di motivare allo studio, si è caduti nell’equazione demotivante “obbligo formativo uguale diritto alla promozione”. Un obbligo forma sempre e solo un dovere, indi logica vuole che “obbligo formativo” sia equivalente a “dovere di studiare”. La promozione non può essere vista come un diritto: è e deve restare una conquista.
  4. Poi perché si scarica sempre e solo sui docenti la responsabilità dei risultati scolastici. I docenti devono operare nel rispetto di leggi, disposizioni e regole alquanto vincolanti e restrittive, devono lavorare arrangiandosi con dotazioni strumentali e didattiche tutt’altro che ottimali. Si dice che c’è chi riesce comunque a ottenere validi risultati, si vero, si tenga però conto che, ferme restando le dotazioni, lo stesso docente probabilmente ottiene risultati diversi di anno in anno: le classi non sono tutte uguali, una strategia di successo può diventare perdente l’anno successivo, per cambiarla e adeguarla alle mutate condizioni potrebbe non bastare la buona volontà e la dedizione del singolo docente.
  5. Infine perché se, nel gioco dello scaricabarile, si passa oltre il livello dei docenti, la colpa viene data ai dirigenti i quali a loro volta sono assoggettati alle stesse limitazioni già viste per i docenti. Non si arriva quasi mai alla sorgente vera del problema: il sistema scolastico.

La scuola che vorrei


sogniOgnuno di noi ha i suoi sogni, chi sul futuro lavorativo, chi sull’amore, chi sul denaro, chi sulla prima auto e via dicendo. Tra i miei sogni ne ricorre uno che riguarda la scuola: vi vedo una scuola totalmente diversa da quella attuale, ma anche da qualsiasi altra forma scolastica che si sia ad oggi vista, certo raccolgo una parte di quanto già seminato, ma vi aggiungo delle novità e assemblo il tutto in una forma diversa, innovativa, oserei dire rivoluzionaria.

Prima di illustrare il sogno, alcune precisazioni sono necessarie:

  • come per ogni sogno, anche in questo ci sono parti ben delineate, altre che si stanno delineando, alcune appena accennate e anche qualche parte ancora piuttosto fumosa, qualcosa, inoltre, si modifica nel momento stesso in cui scrivo;
  • per quando detto qua sopra, mi è impossibile essere completo e preciso;
  • anche se non ne parlo espressamente, è data per scontata la ridefinizione dell’intera struttura sociale;
  • ho dato un titolo al mio sogno: la scuola senza muri;
  • “senza muri” vuole essere innanzitutto simbolico, a identificare la rimozione di una lunga serie di barriere, ma anche pratico, a identificare una scuola non fossilizzata all’interno delle pareti, una scuola portata anche e soprattutto sul territorio che la circonda.

Ora possiamo entrare nel sogno.

Tre i cicli didattici:

  1. dai 3 ai 7 anni – basato sul gioco, la finalità del processo didattico è quella di attivare nei bambini l’interesse allo studio, senza forzare in loro nessun tipo di apprendimento se non quello del piacere d’imparare cose nuove e utili;
  2. dagli 8 ai 14 anni – basato sulla didattica trasversale, formulata principalmente con base esperienziale e con metodologie sia individuali che collaborative e cooperative, si sviluppa su due fasi, parzialmente sovrapposte, la prima finalizzata all’acquisizione di un metodo di studio, che non è necessariamente uguale per tutti, la seconda all’acquisizione delle conoscenze e delle abilità di base;
  3. dai 14 anni in su – basato sulla didattica verticale, il suo obiettivo è quello di dare (e mantenere) la formazione professionale, il programma si concentra, pertanto, sugli aspetti tecnici, che condizionano e guidano anche le materie trasversali.

L’obbligo scolastico è riabbassato ai 14 anni, ma con un successivo periodo d’obbligo formativo fino a 18 anni. Fino a 14 anni il ragazzo deve obbligatoriamente frequentare la scuola, dopo i 14 anni e fino a 18 può scegliere se formarsi presso una scuola, presso un’azienda (adeguatamente strutturata: azienda didattica) o in forma mista (ad esempio la mattina a scuola e il pomeriggio in azienda).

Durante l’intero percorso didattico l’attività scolastica è a tempo pieno: quattro ore la mattina con attività didattiche vere e proprie, quattro ore il pomeriggio con attività di complemento (biblioteca, ricerche, laboratori esperienziali e via dicendo). La famiglia deve rendersi partecipe nelle attività scolastiche dei figli, non solo mediante i colloqui con i docenti, ma con la partecipazione fisica (periodica, casuale e rotativa) alle attività didattiche ed extra didattiche. Nel secondo e nel terzo ciclo l’attività didattica non è indissolubilmente legata all’aula, ma, con decisione autonoma (anche non programmata) del docente, può spostarsi fuori dall’edificio scolastico, vuoi per ragioni didattiche (visita di un azienda, studio della natura, conoscenza della città, eccetera), vuoi per motivazioni logistiche (ragazzi agitati che non permettono il regolare svolgimento della lezione, ad esempio).

mappa1Nel primo ciclo si lavora su obiettivi sociali e non si formulano sistemi di valutazione didattica formale (verifiche, esami, eccetera). Il bambino procede senza fermate fino alla fine del ciclo. Il passaggio al secondo ciclo avviene senza nessun esame, ma solo in funzione della raggiunta età di passaggio.

Nel secondo ciclo si lavora per micro obiettivi didattici: obiettivi identificati con minimi apprendimenti teorici o specifiche azioni pratiche, di modo che la valutazione si possa semplicemente definire con un si (obiettivo raggiunto) o un no (obiettivo non raggiunto). Idealmente, materia per materia, la didattica dovrebbe procedere oltre solo se un obiettivo è stato raggiunto, questo prevederebbe però una elevata personalizzazione del percorso forse inattuabile; diciamo che, in assenza di necessità sequenziali specifiche, ogni tre o quattro mesi si attua, sempre materia per materia, una sommatoria dei si ottenendo le valutazioni nella forma numerica (percentuale). La “promozione” incondizionata si ottiene con il 90% di si, mentre con una valutazione tra il 70 e il 90% si procede con l’obbligo di frequentare recuperi pomeridiani per ogni obiettivo mancato e fino al suo raggiungimento. Una valutazione inferiore al 70% va valutata di volta in volta per definire se sia possibile comunque procedere oltre, sempre con i recuperi, o sia necessario fermarsi e riprendere dall’inizio gli obiettivi del periodo valutato.  Il passaggio al terzo ciclo avviene al raggiungimento del 90% degli obiettivi in tutte le materie.

Nel terzo ciclo si lavora ancora per micro obiettivi didattici, con la stessa prassi in merito alle valutazioni, ma differenziando il sistema di avanzamento nello studio: ogni due mesi somma dei si; avanzamento incondizionato con il 90% di si, tra 70 e 90% avanzamento con recuperi pomeridiani, tra il 40 e il 70% passaggio obbligatorio (anche provvisorio) al percorso misto (scuola la mattina, azienda il pomeriggio); sotto il 40% passaggio obbligatorio (anche provvisorio) al percorso in azienda didattica. A partire dai 16 anni s’inseriscono, per chi abbia scelto il percorso presso le scuole, gli stage aziendali, per i quali le aziende devono obbligatoriamente rendersi disponibili (a fronte dell’obbligo per le scuole di mandare i ragazzi in stage, deve corrispondere un analogo obbligo dalla parte opposta).  L’attestazione di professionalità, ovviamente specifica secondo il percorso di studio, si ottiene con un esame professionale definito, condotto e realizzato con la collaborazione delle aziende. L’ammissione a tale esame avviene al raggiungimento del 90% degli obiettivi in tutte le materie. Il superamento dell’esame avviene con il raggiungimento del 75% degli obiettivi (micro obiettivi) previsti per l’esame.

Apprendimento  veloce

Primo e secondo ciclo avvengono in strutture scolastiche tradizionali (come quelle attuali), il terzo ciclo avviene in cittadelle scolastiche (sullo stile delle attuali cittadelle universitarie o dei college americani), presso le quali l’allievo trova anche tutti i supporti logistici: alloggi, mense, biblioteche, palestre, eccetera. In ogni cittadella il ragazzo trova tutti i possibili percorsi professionali, o quantomeno tutti i principali, di modo che sia possibile fornire inizialmente un periodo di esperienza relativo a tutti i campi professionali e permettere al ragazzo una scelta che si basi anche e soprattutto sulle sue attitudini reali. Parallelamente, anche in funzione di un’educazione al rispetto ambientale (la riduzione della necessità di spostamento ne è una base ineludibile),  deve esserci un ampio utilizzo dell’e-learning, di certo per tutte le materie trasversali e possibilmente anche per quelle materie che non necessitano di attrezzature particolari o in cui tali attrezzature si possono facilmente acquisire anche al proprio domicilio (CAD, Automazione d’ufficio, gestione commerciale, eccetera). La formazione professionale più evoluta (oltre i 18 anni) e quella di mantenimento (aggiornamento continuo) devono strutturarsi quasi esclusivamente sull’e-learning, anche per gli eventuali esami. All’inizio di questo ciclo gli alunni sono degli adolescenti, ovvero dei ragazzi che si avvicinano velocemente all’età adulta, è ora di passare dall’accudimento alla responsabilità personale e sociale: autoapprendimento, pochi vincoli (divieti), nessuna vigilanza o vigilanza attuata dagli stessi ragazzi invece che dai docenti, autodeterminazione della frequenza alle lezioni, eccetera.

Troverà seguito questo mio sogno? Non lo so, forse si, forse parzialmente, forse per niente, poco importa, l’importante è avere un sogno, crederci e lavorare affinché lo stesso possa trovare applicazione reale. Nel frattempo, per quanto possibile all’interno dell’autonomia didattica, cercare di attuare quanto sia possibile attuare. Senza sogni saremmo degli automi, senza sogni moriremmo!

La scuola che non c’è


PEARL Galaxy è una galassia che si occupa di formazione continua e non di formazione scolastica, le due cose sono comunque collegate fra loro, hanno diversi punti di intersezione e alcuni anche di sovrapposizione: dalla scuola escono i futuri lavoratori, la scuola da tempo ha adottato la formulazione dell’alternanza scuola lavoro (stage formativi e/o stage introduttivi), la scuola e la formazione aziendale usano le stesse tecnologie didattiche e via dicendo. Talvolta se non spesso, inoltre, i formatori aziendali sono anche o sono stati formatori scolastici, specialmente parlando di scuole superiori, quelle che oggi si definiscono scuole secondario di secondo grado. Ecco, quindi, che apapre logico e corretto parlare di scuola in questo blog, blog che, tra l’altro, vuole essere si finalizzato a parlare di didattica e formazione, senza però farne un accademismo, una fissazione e una limitazione prettamente aziendale.

Allora partiamo da qui a far vivere questo blog, partiamo da un articolo che parla della scuola odierna, di quello che è per evidenziare quello che non è.


snc1Ci lamentiamo dei cinesi che ci copiano le nostre cose, ma ci si dimentica che i primi clonatori siamo noi italiani. Avete mai letto le riviste di architettura italiane? Riportano quasi esclusivamente modelli ed esempi americani, che poi vengono riproposti tali e quali dai nostri architetti. Avete mai badato alle proposte pedagogiche italiane? Ricalcano minuziosamente i modelli stranieri, principalmente quelli del mondo anglosassone. Avete mai partecipato ad un corso di marketing? Ancora modelli inglesi e si finisce con il parlare quasi solo in inglese. Esiste, però, una importante differenza tra noi e i cinesi e non va a nostro vantaggio: i cinesi copiano in tempo quasi reale e saggiamente, arrivando a proporre prodotti che in qualche modo, foss’anche solo per il minor prezzo, si differenziano dagli originali e trovano una loro ragione d’essere, un loro mercato di vendita; noi copiamo con anni di ritardo e pedissequamente, senza renderci conto dell’essenza delle cose che copiamo, il ragionamento di base è che “vengono dall’estero e pertanto sono buone e valide, stop”.

Siamo in grado di fare anche di peggio: non riusciamo a eludere gli aspetti negativi dei modelli copiati, anche quando questi sono già stati ben evidenziati nei loro paesi d’origine; talvolta arriviamo perfino a sostenere diligentemente e con orgoglio dei modelli che nei loro paesi d’origine sono stati ormai abbandonati o, quantomeno, profondamente modificati in quanto inadeguati. Così succede che mentre gli altri crescono, noi restiamo fermi o addirittura retrocediamo, trovandoci sempre più indietro.

Lo stesso è successo nella nostra Scuola che, legata a modelli stereotipati e superati, nonostante il progressivo innalzamento dell’obbligo scolastico perde continuamente in efficacia e in efficienza. Non è un segreto che la preparazione degli studenti italiani sia in continuo e preoccupante calo, siamo ormai arrivati a un analfabetismo di massa, un analfabetismo che coinvolge tutte le fasce sociali e tutti i titoli di studio. La scuola, pur formalmente dando a vedere il contrario, materialmente ha rinunciato al suo vero ruolo, al ruolo educativo-formativo, abbracciando a piene mani ruoli e figure che non le competono, iniziando da quello di parcheggio per bimbi e giovani per arrivare all’assistentariato sociale se non addirittura alla psicoterapia individuale o di gruppo: giusto, giustissimo, prendere in considerazione tali problematiche, sarebbe di certo più efficiente se venisse fatto da figure e strutture all’uopo formate e organizzate, figure che possono si essere integrate nella scuola, senza però esserne sostituite.

Paradossalmente si parte da un’organizzazione rigida dei ruoli e delle azioni per arrivare ad una gestione economico-manageriale molto aggressiva e formale, oserei dire di stampo quasi Fordiano: una scuola catena di montaggio!

Altrettanto paradossalmente si copiano i modelli aziendali, senza tener conto che la scuola, sebbene abbia molti punti in comune con il sistema azienda, non può essere strettamente assimilata a un’azienda, la scuola dovrebbe lavorare sul futuro dei giovani e invece viene fatta lavorare sul fatturato: una scuola industria.

E poi….

snc2Si introducono vincoli, quali ad esempio il numero minimo di allievi per classe, che hanno come unico effetto quello di un’illogica competizione quantitativa tra gli istituti e i docenti vengono indotti a operare, invece che in ragione del migliore insegnamento, in funzione della migliore soddisfazione dei desideri dei ragazzi, pur sapendo che tali desideri, oggi, ben raramente coincidono con lo studio e il lavoro. Una scuola che punti sull’aspetto qualitativo ben presto si vedrebbe additata come troppo rigida e difficile, subendo un calo nell’afflusso di allievi, allora si adotta la contorta logica di programmi pomposi affiancati dal metodico abbassamento degli obiettivi didattici: la scuola del consenso popolare.

Si è introdotta la Certificazione di Qualità, certo un ottima cosa se non fosse che lo si è fatto e si continua a farlo attraverso un modello qualitativo assolutamente improprio e ormai in fase decadente, basato esclusivamente sulla produzione di documentazione, per giunta cartacea, sull’annullamento della flessibilità operativa, sull’imposizione dall’alto dei processi, sul controllo unidirezionale e così via. Per dirla in breve si basa il tutto sulla cura spasmodica degli aspetti formali a discapito di quelli operativi: la scuola dell’apparire.  (P.S. Oggi i migliori modelli di Qualità lavorano invece esattamente all’opposto, coinvolgendo tutti i livelli e facendo partire dal basso le indicazioni sui processi e sui loro miglioramenti).

Si introduce l’adeguamento al Decreto Legislativo 231/01 per attribuire alle persone giuridiche (direzione scolastica, in pratica) la stessa responsabilità esistente per le persone fisiche (docenti e altro personale scolastico), per poi promulgare un Codice Etico e alcuni avvisi accessori che girano la frittata sul docente, il quale, però, per fare una regolare ed efficiente azione formativa si trova a dover violare determinate disposizioni legislative e/o deontologiche: la scuola furba.

Si fa presto a dire che gli insegnanti hanno perso professionalità e interesse nel loro lavoro. Si, a volte è anche vero, per forza: lavorano in una struttura demotivante, una struttura che continua a chiedere loro sempre più forma e sempre meno essenza, salvo poi, in presenza di mancato afflusso o di insoddisfazione degli alunni, prendersela con il corpo docente reo di poca essenza, una struttura che non è capace di darsi delle basi solide e permanenti, una struttura che deve continuamente rivoluzionarsi al solo fine di giustificare la presenza di certe figure dirigenziali e/o istituzionali. Insomma, un lavorio senza fine, un continuo fare e disfare, apparentemente positivo, in realtà solo conservativo e formale: tutto rimane come prima, cambiano solo gli aspetti esteriori, nessun vero miglioramento strutturale e operativo viene ogni volta introdotto!

State sintonizzati, nel prossimo articolo vi illustrerò la scuola come la vedo io: “La Scuola che vorrei”.